Massimo Caiazzo: il colore come crocevia tra arte, scienza e valore sociale.

Massimo Caiazzoa

Chi è Massimo Caiazzo

Primo Colour Consultant in Italia, collabora dal 1990 al 2006 con il prestigioso Atelier di Alessandro Mendini a Milano. Docente di Cromatologia all’Accademia di Verona dal 2003, tiene corsi di approfondimento sul colore all’Accademia di Brera. Come Artista espone al Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo e al Musée des Arts Décoratifs del Louvre di Parigi.

Ha esposto anche al Museum 4th Block of Ecological Arts di Kiev.

Collabora col Future Film Festival di Bologna dove sperimenta l’uso artistico del colore nel linguaggio visivo. 

Da Presidente dell’IACC Italia fonda una Accademia di Alta Formazione che descrive come “un luogo di incontro privilegiato per coltivare la cultura del colore e dell’amicizia”.

Insieme a Silvia Botti ha pubblicato nel 2021 Abitare i colori – Conoscere il loro linguaggio segreto per capirli e usarli”, Vallardi Ed., dove espone con linguaggio accessibile a tutti le ricerche e le applicazioni delle varie teorie del colore.

Massimo Caiazzo ti colpisce per il suo accento napoletano che amplifica la passione con la quale parla delle sue numerosissime esperienze professionali ed umane mettendoti subito a tuo agio, come se si conversasse con un vecchio amico. Condensare un percorso così variegato non è facile, tuttavia è una impresa che vale assolutamente la pena di fare. E di leggere.

 

L’intervista a Massimo Caiazzo per i nostri MEMbers

MEM – La prima cosa che balza all’occhio ripercorrendo la sua carriera è il concetto di “sinestesia”: di cosa si tratta esattamente e perché ha avuto un ruolo così preponderante nella sua vita professionale?

M.C. – Vero, ne parlo molto volentieri. Per capire questo concetto dobbiamo partire dalla consapevolezza che i nostri sensi sono autonomi ma non distaccati tra loro: piuttosto cooperano. Da quando il genere umano si è eretto rispetto agli altri mammiferi, l’olfatto ha perso importanza perché il nostro naso si è allontanato molto da terra. A questo punto il campo visivo si è ampliato rendendo la vista il senso principale per la sopravvivenza.

Nonostante questo, la nostra “memoria limbica”, quella più antica ed inconscia, ha mantenuto traccia del nostro lontano passato “olfattivo” interagendo con la vista.

La visione cromatica è diventata una sorta di segnaletica intuitiva che interagisce con gli altri sensi sia a livello inconscio che a livello associativo permettendoci così di sopravvivere. Pensi ad esempio a come facciamo a distinguere un frutto acerbo da uno maturo o a come rileviamo un alimento deteriorato rispetto ad uno sano.

La parola Sinestesia

viene dall’unione di due parole greco-antiche: “syn”, che vuol dire “insieme” e “aisthánomai”, che vuol dire “percepire”.

Significa dunque evocare gli altri sensi partendo dalla stimolazione di quello direttamente coinvolto. Il filosofo inglese John Locke ha descritto l’esperienza di una persona cieca che poteva “sentire” e “toccare” i colori, per esempio.

I primi a suggerire questo concetto furono gli antichi Egizi, per non parlare di Aristotele e di Platone.

Scendendo al pratico, nella nostra contemporaneità, pensiamo alle degustazioni bendate di vino dei sommelier che provocano la reazione spiccata degli altri loro sensi. 

 

Credits: Greg Dunn, University of Pennsylvania.

MEM – Appurato che la vista e i colori sono diventati fondamentali per la nostra sopravvivenza, cerchiamo di capire la funzione di questi ultimi.

M.C. – I colori hanno una funzione informativa perché permettono di orientarci, di concentrarci e di svolgere al meglio qualsiasi funzione umana.

Quando li trattiamo da un punto di vista progettuale, dobbiamo definitivamente prendere atto che non svolgono una semplice funzione decorativa ma che hanno una influenza fisiologica diretta. Determinando, di fatto, il comportamento umano ed innescando delle reazioni a catena in noi.

Il problema è che siamo stati via via diseducati alla naturale policromia verso una monocromia che non ci appartiene: lo ha fatto l’architettura dal razionalismo in poi; lo ha fatto il design come soluzione di comodo per fini commerciali. Lo ha fatto la moda per restringere il campo visivo facendo apparire le persone più snelle in modo da farle aderire ai canoni di bellezza prevalenti.

Riappropriarsi del colore significa riappropriarsi della coscienza delle informazioni che ci arrivano dalla percezione oculare.

Significa dover comprendere gli stimoli cerebrali ed emotivi che generano in noi. Significa quindi saper progettare ambienti equilibrati e spazi armonici che evitino iper o ipo-stimolazioni.

Le neuroscienze sono state determinanti in questo processo di consapevolezza.

MEM – Parliamo sempre di stimolazioni primarie, quindi valide per chiunque a prescindere dalle diverse culture e dalle diverse percezioni che ognuno di noi può avere?

M.C. – Il colore ha su di noi effetti fisiologici, psicologici, comunicativi e semantici. In altre parole, ci sono gli effetti delle diverse lunghezze d’onda sui nostri recettori oculari e cerebrali, le sensazioni mentali che ci provocano, le informazioni che ci forniscono e infine i significati dell’interazione tra luce e colori.

Il mio Maestro Frank H. Mahnke ha descritto nel 1996 quella che lui stesso ha definito “Piramide dell’esperienza del Colore”: è una piramide divisa in livelli alla cui base troviamo le stimolazioni più fisiologiche, immediate e meno coscienti fino ad arrivare alla punta che è occupata dalle influenze culturali, dai gusti, dalle mode, dagli stili e infine dal rapporto personale col colore. Dobbiamo riprendere la struttura e la proporzione della piramide proposta da Mahnke smettendola di partire dalla punta e concentrandoci invece sui primi 3 livelli della sua base che rappresentano gli stimoli primari universali, validi a prescindere dalle varie culture e dalle singole sensibilità.

Tenendo sempre conto, però, che quei livelli non possono essere separati rigidamente come se non si influenzassero tra loro.

MEM – Massimo, lei ha maturato esperienze notevoli nella gestione del colore di spazi collettivi anche “difficili”; penso in particolare alla sua esperienza al carcere di Bollate (MI) dal 2006 al 2008, ma pure alle sue esperienze in edifici scolastici. Ce ne vuol parlare?

M.C. – Anzitutto va precisato che parliamo di progetti, cioè di processi che avevano degli scopi precisi. Poi va precisato pure che sono state attività dialoganti in cui il ruolo di diverse professionalità e soprattutto degli utenti finali è stato determinante. L’esperienza che ho avuto con gli edifici scolastici aveva l’obiettivo di arginare l’abbandono scolastico migliorando il rapporto studenti/docenti. Nientemeno. Il tutto usando il colore. Come abbiamo fatto? Partendo dall’entrata e dosando opportunamente policromia e temperature di colore, siamo riusciti ad eliminare quella terribile sensazione che hanno troppi alunni e che viene riassunta molto bene dall’espressione “Mi ci hanno mandato, qua”! Poi abbiamo agito sulle aule eliminando tutte quelle iper-stimolazioni che portano ad una distrazione degli studenti e rimettendo il focus sull’insegnante; siamo stati molto attenti a rispettare il famoso “rapporto 3:1” tra il pavimento che sostiene, le pareti che limitano e il soffitto che non deve mai essere bianco.

I risultati sono stati sorprendenti.

L’esperienza al carcere di Bollate è quella di cui parlo sempre più volentieri perché mi ha fatto crescere molto dal punto di vista professionale e umano. Tenga conto che per due anni abbiamo lavorato a tu per tu con gli ospiti della struttura coinvolgendoli nell’attività materiale e nei feedback progettuali.

La sfida era quella di incrementare le attività interne distendendo i rapporti tra detenuti e agenti diminuendo l’aggressività generale connaturata a quel tipo di ambiente.

Ebbene, dialogando con le persone coinvolte è uscito fuori che il problema più grande della vita in carcere era il tempo. Tutto il lavoro è stato quindi focalizzato sulla percezione del tempo e sugli effetti fisiologici dei colori. Il loro luogo più odiato in assoluto era il corridoio, uno spazio bianco che portava verso le celle da un lato e verso l’uditorio dall’altro. Giocando sulle tonalità calde e su quelle fredde, sulla “morbidezza” dei colori e sulla loro densità, abbiamo creato due passaggi distinti andando verso le celle o verso la stanza degli incontri. A tal proposito, sa qual è stato il più bel complimento che ho ricevuto nella mia carriera?

Esterno carcere di Bollate (MI)

MEM – No, ci dica.

M.C. – Uno dei detenuti, forse il più scettico di tutti su quel progetto e sul mio lavoro, uno che non mi aveva mai rispettato per il mio ruolo, alla fine delle realizzazioni mi ha avvicinato dicendomi: “Ingegnere, lo sa che adesso quando viene mia figlia mi sento molto meno a disagio?”. Questo commento è valso tutti gli sforzi di quel progetto e mi ha dimostrato tutta la valenza sociale del colore e quanto è importante ciò che faccio.

MEM – Ha anche qualche esempio significativo di collaborazione residenziale, privata?

M.C. – Nei primi anni Novanta ero tra i pochissimi (se non l’unico) color designer professionista in Italia, fui contattato da Gianna Nannini. Lei mi diede subito fiducia affidandomi la sistemazione della sua casa in modo da superare la contrapposizione netta tra le stanze colorate di bianco e il nero del suo pianoforte a coda. Sa, allora erano di moda l’architettura e l’ambiente minimalisti. Giocando soprattutto con la luce e con le ombre e introducendo tonalità morbide di colore, ho cambiato l’ambiente della sua casa in modo da renderlo più favorevole alla sua creatività. Da allora e fino al 1997 Gianna mi ha affidato la progettazione e la realizzazione di luci e colori delle case in cui ha abitato. Questa esperienza mi ha insegnato che il progettista del colore non deve essere uno che realizza “tendenze” alla moda, bensì colui che capisce e sperimenta come il colore agisce sull’organismo. Cioè che non tratta il colore come una imposizione arbitraria del designer ma sperimentandolo insieme al proprio o ai propri committenti.

MEM – Dal 2009 lei è Presidente dell’IACC Italia

Cos’è l’IACC e quale ruolo svolge? Quale taglio ha dato alla sua presidenza?

M.C. – I.A.C.C. sta per International Association of Colour Consultants and Designers e nacque nel 1957 ad Hilversum, nei Paesi Bassi, per iniziativa del Dr. Heinrich Frieling, biologo, filosofo e fondatore dell’Istituto tedesco di psicologia del colore. Egli riunì una cinquantina di autorevoli esperti di architettura, design, psicologia, arte e di molte altre discipline attinenti la progettazione, stilando un disciplinare e un programma formativo per la nuova figura professionale del progettista del colore. Lo scopo iniziale era arginare la sindrome depressiva invernale che investe i Paesi nordici, prima causa di suicidio. Da allora l’associazione si è espansa nel mondo ed è arrivata in Italia proprio nel 2009 quando abbiamo formato il primo nucleo; da allora la nostra opera formativa non si è più fermata, allargandosi continuamente. IACC Italia promuove una progettazione sensibile che coniughi arte e scienza; sì, perché in fondo ci muoviamo con lo spirito che animò Leonardo. Il nostro approccio è multidisciplinare poiché nel progettare uno spazio bisogna tener conto degli aspetti emotivi, ergonomici, neuropsicologici e cromatici che inneschiamo. L’obiettivo è generare massima integrazione tra uomo e ambiente aggiungendo conoscenza alle professionalità esistenti. In definitiva, proponiamo un approccio umanistico a discipline percepite come meramente tecniche.

 

MEM – In quest’ottica IACC Italia avvia la sua collaborazione con MEM: cosa proporrà nel suo corso?

M.C. – La nostra collaborazione mi è sembrata naturale, quasi ovvia: condividiamo la stessa visione di fondo. E dunque: proporremo un corso multidisciplinare che avvicini i progettisti al colore soffermandoci sulle armonie e i contrasti, sull’ergonomia del colore, sulle teorie del colore con una attenzione particolare a casi pratici e alla condivisione di progetti. Non spiegheremo ogni cosa, non sveleremo chissà quali segreti, ci baseremo su ciò che ci dice oggi la scienza per arrivare alla visione umanistica di cui parlavo prima. Perché il colore si pone come crocevia tra arte e scienza ed ha un valore sociale.

Cosa fare ora

Per essere aggiornati sui corsi in collaborazione con IACC tenuti da Massimo Caiazzo. Iscriviti subito in lista d’attesa per sapere le date del Corso strutturato per MEM dal Dott. Massimo Caiazzo, Presidente di IACC Italia e Nello Marelli, Vicepresidente IACC Italia, per usufruire di tutte le promozioni riservate ai MEMbers!